di Giorgio Ruffolo
Le ragioni culturali di una sconfitta fra attardamenti radicali e acquiescenze riformiste. Da la Repubblica, 30 maggio 2008
Più ci penso più mi convinco che la ormai evidente crisi della sinistra (parlo soprattutto di quella europea) è dovuta, molto più che a gravi errori politici, pure evidenti, a fattori culturali e morali.
In una intervista ripubblicata da Lettera Internazionale, la bella rivista diretta da Federico Coen e Biancamaria Bruno, Cornelius Castoriadis ricordava che i filosofi politici di oggi «ignorano alla grande l´intima solidarietà tra un regime sociale e il tipo antropologico necessario per farlo funzionare».
È un fatto che nel nostro tempo, diciamo a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, è profondamente mutato non soltanto il regime sociale (la struttura della economia e delle classi sociali) ma anche il «tipo antropologico» rappresentativo della società. Della prima mutazione i partiti della sinistra (parlo dei grandi partiti «riformisti») si sono, anche se a stento, accorti e hanno tentato di adeguarsi, prevalentemente in modo passivo, e cioè subendo l’iniziativa di un capitalismo vittorioso. Non hanno invece neppure percepito la seconda, il profondo mutamento culturale che la accompagna e che determina i cambiamenti dell’umore politico e del comportamento elettorale.
Parlo di cambiamenti che si rivelano più con manifestazioni apolitiche e apparentemente irrilevanti, ma significative del modo di sentire e di pensare; dei valori esistenziali; degli “attrattori” del comportamento: tutte “spie” di mutamenti antropologici.
Nell’ultimo mezzo secolo, certo, la natura umana profonda, quella che contraddistingue le caratteristiche strutturali costituenti della specie, è cambiata di poco. Essa cambia sì, ma assai lentamente nello spazio dei millenni, anzi dei milioni di anni. Le caratteristiche culturali, che riguardano i comportamenti estrinseci, cambiano invece radicalmente e talvolta rapidamente. Chi potrebbe dire che l’Uomo medievale o l’Uomo del Rinascimento sono vicini al nostro modo di considerare la vita? (con sorpresa constatiamo, talvolta, che ci è molto più vicina la cultura degli antichi romani! il che prova che la nostra non è una evoluzione lineare).
Ora: un cambiamento antropologico radicale è intervenuto tra la società occidentale dell’Ottocento e della prima metà del Novecento e quella attuale. Quella accoppiava un forte materialismo progressista e scientifico con una altrettanto perentoria esibizione di valori etici trascendenti (Dio, Patria, Famiglia); un accoppiamento che ne costituiva insieme la contraddizione e la forza. Questa ha abbandonato la fede nelle magnifiche sorti e progressive ripiegando dal materialismo progressista allo psicologismo scettico; e al tempo stesso ha annegato i valori trascendenti, cui tributa una deferenza sempre più formale e superstiziosa, in una esplosione di edonismo e di egoismo davvero trascendentale. Il che la rende, magari, più coerente, ma intrinsecamente più vulnerabile.
La forza attrattiva della sinistra stava nella sua decisa denuncia delle contraddizioni della società borghese; della sua ipocrisia e della sua ingiustizia: dell’impossibilità di coniugare i suoi valori trascendenti esibiti, con la pratica della sopraffazione e dello sfruttamento. La sinistra di oggi si trova di fronte a classi dirigenti che, grazie al formidabile progresso tecnologico, non hanno più bisogno sistematico di sfruttamento del lavoro (sebbene questo sia tutt’altro che scomparso) essendo in grado di produrre masse enormi di beni di consumo. Viene meno dunque, almeno in parte, la sua missione di denuncia dello sfruttamento del lavoro. Si ingigantisce invece lo sfruttamento della natura, praticato in cambio di utilità sempre più frivole e al costo di distruzione di risorse irreversibili. D’altra parte, le nuove classi dirigenti rinunciano a presentarsi come portatrici di valori trascendenti per identificarsi con quelli decisamente immanenti dell’edonismo materialistico. Sul terreno economico, la virtù ascetica del risparmio è sostituita dalla incentivazione pubblicitaria dell’incontinenza consumistica; e l’ammirazione per i grandi imprenditori costruttori per quella dei grandi maghi speculatori. Di fronte a questa vera e propria conversione a U del vangelo capitalistico, la sinistra, da una parte si trincera combattendo un capitalismo che non c’è più; dall’altra, manca di percepire le nuove contraddizioni del nuovo capitalismo: che sono soprattutto ecologiche e morali.
Ecologiche: l’insostenibilità di una economia basata sul consumo del capitale naturale: una distruzione chiamata crescita.
Morali: l’orientamento della potenza creatrice della tecnica verso le finalità frivole del consumo, anziché verso la realizzazione di una società più giusta, di bisogni collettivi più urgenti, di scopi culturali realmente trascendenti.
La sinistra, da una parte, quella “radicale”, recita un vecchio copione inattendibile. Dall’altra, quella “riformista”, insegue una rispettabilità politica basata sull’imitazione di un modo di produzione irresponsabile e di un modo di consumo immorale. Perché, in tali condizioni, dovrebbe essere in grado di contrastare efficacemente i richiami edonistici della destra e di acquistare consensi senza essere in grado di esprimere una alternativa economica ed etica alla deriva ecologica e morale, Dio solo lo sa.