di Renzo Penna – In una delle recenti interviste di Stefano Fassina ho ritrovato alcune delle motivazioni che, nel 2007, mi hanno convinto a non aderire al Partito Democratico. Iscritto ai Democratici di Sinistra dopo il congresso che si tenne a Torino nel febbraio 2000, l’anno seguente, in quello che si concluse a Pesaro, mi sono schierato, insieme a Fausto Vigevani e ai compagni dell’Associazione Labour, con la mozione “Per tornare a vincere”, quella del cosiddetto “correntone”, che per la segreteria opponeva Giovanni Berlinguer a Piero Fassino. Le ragioni che indussero l’Associazione Labour, composta in prevalenza da compagni di cultura e tradizione socialista “lombardiana”, a sostenere con uno specifico documento la candidatura di Berlinguer dipesero, tra l’altro, da una maggiore attenzione del suo programma: “al mondo del lavoro e alle trasformazioni sociali e culturali in atto e… ad una riflessione che sappia utilizzare anche le capacità del mercato senza subirne i limiti e senza i rischi di un ‘mercato’ della società civile, dei diritti fondamentali dell’istruzione, della salute, della sicurezza, della legalità”.
Si evidenziava in quel passaggio la preoccupazione di Labour per la debolezza del nostro riformismo, autoreferenziale e scarsamente collegato ai valori, che su due questioni essenziali per una forza di sinistra: il lavoro e il welfare state, non era stato in grado di misurarsi a fondo con i cambiamenti radicali indotti dalla rivoluzione tecnologica e, soprattutto, dai processi di finanziarizzazione dell’economia e della società. Cambiamenti che stavano causando, i primi, una forte riduzione del lavoro necessario, nuove professionalità a rapida obsolescenza, aumento della precarietà e una gigantesca redistribuzione della ricchezza dai ceti medio-bassi a quelli alti, mentre i secondi si sottraggono a ogni regolazione degli Stati, impoveriscono la politica, riducono la democrazia e rendono i paesi poveri sempre più distanti da quelli ricchi. Una debolezza di analisi che ha finito per favorire una subalternità culturale e politica dei Ds, prima, e del Pd, poi, al pensiero e alle politiche neo-liberiste, finendone per mutuare idee e modelli.
Tipica, ad esempio, la concezione dello stato sociale di Walter Veltroni, il primo segretario del PD, e la sua adesione a proposte come il “welfare mix” o il “welfare community”. Secondo l’economista Paolo Leon: “il welfare mix è una manifestazione precisa della concezione piccolo-borghese sui diritti che nascono dallo stato sociale: loddove lo Stato non è più in grado di sostenere la spesa sociale allora si deve lavorare insieme con il volontariato. Il volontariato è un’istituzione importantissima e serve a correggere gli elementi negativi della burocrazia, ma non è un sostituto dello stato sociale, non crea diritti, crea sempre dipendenza e una condizione di sottomissione in chi è beneficiato”. Mentre lo stato sociale universale (sanità, scuola, pensioni) assegna i diritti delle persone in modo che esse non siano responsabili per eventi che non nascono dalla loro volontà. Dunque il welfare state, immaginato dai liberali in Inghilterra, ma applicato dai laburisti, è un diritto permanente, non è una concessione.
Con la segreteria di Fassino i DS, invece di mettere mano con impegno alla costruzione del partito del socialismo europeo in Italia decisa a Torino e, prim’ancora, nel ’98 a Firenze (il suo riformismo, la sua identità, il suo progetto), ripresero la strada del compromesso, non più storico, con la Margherita di Rutelli per dare vita al Partito Democratico. Un partito senza storia e senza memoria. Ricordo la tristezza che mi procurò l’intervento di Giorgio Ruffolo al congresso di scioglimento dei DS a Firenze nell’aprile 2007: dopo una puntuale e analitica elencazione dei limiti del soggetto politico che si stava decidendo di costituire, decise, comunque, di farne parte.
Mentre la sinistra, uscita sconfitta dal congresso di Pesaro, con la costituzione dell’Associazione Aprile, si affidò per un tratto di strada a Sergio Cofferati – reduce come segretario della Cgil dal vittorioso confronto sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori con il governo Berlusconi – che, però, sorprendendo molti, decise di candidarsi a sindaco di Bologna. Prima di quella scelta Cofferati, invitato dalle associazioni Città Futura, Labour e Critica marxista, partecipò ad Alessandria ad un incontro pubblico presso il salone del DLF che per partecipazione e adesione popolare è risultato, in assoluto, il più riuscito degli ultimi anni. Personalmente ho, invece, aderito con scarsa convinzione al progetto di Sinistra Democratica, messo in campo da Fabio Mussi dopo la nascita del Pd, e preso le distanze, prevedendone l’esito fallimentare, dalla lista la Sinistra Arcobaleno alle elezioni del 2008.
Nella citata intervista di Fassina si denuncia, poi, un altro dei limiti già presenti in origine nel Pd che Matteo Renzi, l’attuale segretario, sta solo portando alle conseguenze estreme: una concezione della democrazia plebiscitaria, di un uomo solo al comando, la preferenza per un sistema semplificato di bipartitismo che mal sopporta la fatica delle alleanze, testimoniato dall’Italicum. La proposta dell’attuale legge elettorale che permette ai partiti di nominare la maggioranza degli eletti, assegna un premio rilevante in seggi alla formazione più votata e si affianca alla riforma costituzionale di un Senato non più elettivo, ma composto anch’esso da consiglieri regionali designati dai partiti. Un evidente sbilanciamento di potere tutto a favore dell’esecutivo che riduce fortemente il peso politico, il ruolo e la funzione democratica e istituzionale del Parlamento e del Presidente della Repubblica. Analogamente sui temi sociali, del lavoro, della scuola, del mezzogiorno, nell’insofferenza verso le organizzazioni intermedie della società, nelle ripetute e generiche critiche al Sindacato, nelle ricercate polemiche con la Segretaria della Cgil Renzi adotta un modello autoritario e – sostiene Fassina – rende esplicita una concezione liberista già contenuta nel discorso di Veltroni al Lingotto di Torino: “dove, non a caso, era presente Piero Ichino, l’autore, assieme a Sacconi del Jobs Act”.
Ma queste estremizzazioni del segretario e del Presidente del Consiglio su temi sensibili per la sinistra in Italia come in Europa, quali l’assenza di una idea di valore sociale del lavoro, lo snaturamento dei diritti presenti nello Statuto del ’70 – dal possibile demansionamento al licenziamento senza una giusta causa e un giustificato motivo – che toccano la dignità del lavoratore, hanno il pregio di porre in esplicito il tema sull’appartenenza ancora del Pd alla sinistra o la sua definitiva rinuncia e trasformazione in una formazione di centro, nel partito della nazione.
I prossimi mesi si incaricheranno di dare una risposta, a me sembra che mai come in questa fase lo spazio per una sinistra riformatrice, con una cultura di governo e di cambiamento della società, non subalterna alle concezioni liberiste, capace di inverare i grandi valori di libertà e di eguaglianza, sia molto grande. E avverto in molti anche una attesa, nel corpo sociale del Paese, tra le associazioni ambientaliste, di volontariato, per la difesa dei beni comuni. Occorrerà, però, non ripetere gli errori del passato, evitare soluzioni affrettate e lavorare ai valori, all’identità, ai contenuti programmatici. C’è da ricuperare credibilità e fiducia favorendo, nei territori, la partecipazione, l’incontro con i problemi, il disagio, la sofferenza, ricercando nel concreto le soluzioni. E promuovendo, attraverso queste azioni, la formazione di una nuova e impegnata classe dirigente.
Alessandria, 12 agosto 2015